A cinque anni dagli accordi di Parigi e dopo una battuta di arresto dovuta alle decisioni di Donald Trump e di altri leader mondiali, si sta creando un clima politico favorevole al rilancio della strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici. L’Unione Europea ha deciso di estendere i tagli alle emissioni di anidride carbonica dal 4° al 55% entro il 2030, ovvero da qui a dieci anni. La Cina si è data come obiettivo “emissioni zero” entro il 2060. La Russia ha ribadito di voler fare la sua parte. Negli Stati Uniti il presidente appena eletto, Joe Biden, ha annunciati di voler ribaltare subito il ribaltone di Trump e riportare il suo paese negli accordi di Parigi. Sì, il clima politico è mutato, in meglio. Approfittiamone.

Un modo per rendere più stringenti questi impegni e tentare almeno di raggiungere l’obiettivo indicato, proprio prima di COP 21 a Parigi nel 2015 dall’IPCC – contenere a fine 2100 l’aumento della temperatura entro 2,0°C e possibilmente entro 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale – è stato proposto dal Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, nel suo intervento inaugurale del Climate Ambition Summit 2020: che i governi dichiarano in ciascun paese lo “stato di emergenza ambientale” e lo conservino fino al raggiungimento della neutralità (emissioni nette zero). Obiettivo cui ha spinto ancora una volta di recente anche papa Francesco. Il tempo è breve. L’IPCC ci dà solo 10 anni, entro il 2020, per assumere le decisioni giuste adeguate, che in buona sostanza significa raggiungere a livello globale la neutralità carbonica entro la metà del secolo. L’imprese è difficile, ma non impossibile.

Non dipende, però, solo dai governi. Dipende anche, in quota parte, dai comportamenti di tutti noi. Dall’affermazione di una convinta cultura della mitigazione, oltre che dell’adattamento. Non c’è solo il cambiamento del clima, tuttavia. Proprio in questi giorni la rivista Nature ha pubblicato un articolo di alcuni scienziati dell’istituto israeliano Weizmann per le scienze nel quale si documenta come il peso dell’artificiale, ovvero di tutto quanto costruito dall’uomo, ha superato il peso della biomassa totale. Un segnale significativo dell’impronta umana sul pianeta Terra legata a un’altra grande emergenza: l’erosione della biodiversità. Sta diminuendo con una velocità pericolosa sia il numero delle specie che, in media, quella delle popolazioni delle singole specie. Un grave danno sia per l’economia della natura sia per l’economia umana.

Cambiamenti del clima ed erosione della biodiversità sono fenomeni collegati tra loro. I cambiamenti del clima determinano spesso l’assottigliamento delle popolazioni e persino la morte di alcune specie. Ma anche la migrazione di specie da un ambiente all’altro, con l’alterazione di antichi equilibri. Ma è anche vero il contrario: la deforestazione, per esempio, accelera i cambiamenti del clima.

Ma stiamo vivendo, in questi mesi, un’altra emergenza planetaria: la pandemia da coronavirus. Molto si è scritto, e a ragione, su questo fenomeno che interessa direttamente la salute umana. Meno si è scritto, invece, sul fatto che questa terza emergenza planetaria è intimamente legata alle prime due. Cambiamenti climatici, erosione della biodiversità con modificazione degli equilibri degli ecosistemi ed emergenza di nuovi agenti infettivi sono tutte manifestazioni diverse ma interdipendenti di un unico grande fenomeno: l’azione umana sull’ambiente.

È ormai scienza consolidata il fatto che le emerging diseases, le “nuove” malattie infettive sono quasi sempre il frutto di alterazioni di tipo ambientale (abbattimento di foreste, migrazioni conseguenti a variazioni della temperatura media) che portano gli umani a contatto con agenti infettivi finora confinati in ambienti sconosciuti. Se davvero, dunque, i governi dichiareranno lo stato di emergenza climatica, esse dovrà essere anche in qualche modo una dichiarazione dello stato di emergenza della biodiversità e del rischio pandemico. Perché stiamo toccando con mano quello che molti ecologi ci dicono da tempo: la vita sul pianeta è organizzata a diversi livelli: locale e globale. E lo stesso vale per il rapporto tra la vita e l’ambiente abiotico.

In altri termini stiamo toccando con mano la complessità e l’interdipendenza della biosfera. Dimensioni che non interessano – non possono interessare – solo i teorici dei rapporti ecologici, ma che entrano in maniera sempre più evidente nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Ecco, dunque, che non è per il gusto di alzare l’asticella (dobbiamo fare sempre qualcosa in più) ma per una necessità cogente che per contrastare le pandemie, l’erosione della biodiversità, i cambiamenti del clima, che dobbiamo acquisire una cultura sistemica o, come la chiama Francesco I, dell’ecologia integrale. Che, detta in altri termini, significa: non è possibile cercare di governare la complessità interdipendente della biosfera del pianeta Terra con azioni singole, semplici, parziali.

Fonte: Rivista Micron

Sull’autore (da scienzainrete.it)
Pietro Greco (1955-2020), giornalista scientifico e scrittore, laureato in chimica, è stato socio fondatore della Fondazione IDIS-Città della Scienza di Napoli. Ha diretto master in Comunicazione scientifica della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste. È stato membro del consiglio scientifico dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e della Fondazione Symbola. È stato direttore della rivista Scienza&Società edito dal Centro Pristem dell’università Bocconi di Milano e di Bo Live, magazine dell’università di Padova.