Il problema dei sussidi statali ai combustibili fossili rimane uno degli ostacoli principali nella transizione a un’economia a basse emissioni, poiché incentivano la produzione e il consumo di carbone, petrolio e gas. Secondo l’IISD (International Institute for Sustainable Development) una completa eliminazione potrebbe portare a una diminuzione delle emissioni fino al 10%.
Questi aiuti finanziari secondo i dati dell’IEA e dell’OCSE sono ammontati in media a 555 miliardi di dollari all’anno nel periodo 2017-2019. Nel 2020 i sussidi invece sono calati a 345 miliardi di dollari, sostanzialmente per il calo dei prezzi e della domanda a causa della situazione di emergenza pandemica. Invece, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale nel solo 2020 i sussidi a livello globale sono ammontati a circa 6000 miliardi di dollari, pari al 6,8% del Pil mondiale. Nel caso dell’Italia i sussidi raggiungono i 41 miliardi di dollari o il 2,1% del Pil nazionale. In questi dati vengono inclusi anche i costi delle esternalità negative sull’ambiente dovuti ai sussidi. Quindi non sono comparabili con quelli forniti dall’IEA. Come facile immaginare, è probabile che gli aiuti ai combustibili fossili registrino una risalita nel 2021 in seguito alla ripresa delle attività economiche.
Tabella dei sussidi ai combustibili fossili per paese (totali, in % di PIL, pro-capite) tratta dai sopracitati dati del Fondo Monetario Internazionale.
La questione dei sussidi è ormai da tempo al centro delle discussioni politiche legate al cambiamento climatico, ma non era mai comparsa nei documenti di una COP. Fino a Glasgow. Nel paragrafo 36 del Climate Pact di Glasgow si legge infatti che per arrivare a un sistema energetico a basse emissioni è necessaria «un’eliminazione graduale dei sussidi inefficienti ai combustibili fossili». Simili dichiarazioni di impegno sono già presenti a partire dal 2009 negli accordi dei paesi del G20 e del G7, che però non hanno prodotto risultati soddisfacenti portando a una diminuzione degli aiuti del 9%. La presenza dei sussidi negli accordi di Glasgow, secondo alcuni osservatori, è stato un risultato importante che segna la rottura di un tabù. Ma non mancano alcuni punti problematici già notati nei documenti del G20 e del G7.
Secondo l’esperto di politiche climatiche Harro van Asselt, il termine “inefficiente”, che compare nel documento della COP26, non risulta definito e porta a una grande ambiguità. Ciò consente agli stati di decidere arbitrariamente quali sussidi mantenere e quali eliminare. Inoltre, nel paragrafo non viene indicata entro quando i sussidi andranno eliminati. L’unica indicazione presente è che ci debba essere un’accelerazione verso una loro completa rimozione. Questo lascia ampio spazio di interpretazione agli stati che possono trovare scappatoie per aggirare l’impegno, decidendo quali sussidi vadano riformati ed entro quando. Per adesso, dunque, secondo Van Asselt, la dichiarazione ha un significato principalmente simbolico, i cui effetti sono ancora tutti da verificare.
Ma perché per gli stati questi impegni sono così difficili da rispettare?
Innanzitutto esistono due tipi di sussidi usati dai governi: una tipologia riduce il costo di produzione dei combustibili attraverso pagamenti diretti e sgravi fiscali alle aziende; un altro abbassa il prezzo dei combustibili per i consumatori. I sussidi ai consumi sono molto diffusi nei paesi in via di sviluppo, che li utilizzano per far accedere all’energia le persone a basso reddito, per esempio abbassando il costo della benzina per i trasporti. Diversi fattori rendono complesso il superamento di questi aiuti. Uno di questi riguarda chi percepisce in maniera più tangibile i benefici dei sussidi. Le aziende produttrici, i lavoratori del settore e gli automobilisti, vedono i propri interessi messi in discussione. Questi gruppi esercitano quindi pressioni politiche e resistono alle proposte di cambiamento, soprattutto quando mancano compensazioni economiche adeguate.
Esistono poi altri fattori strutturali difficili da cambiare nel breve termine. Per esempio, il fatto che l’economia di alcuni stati dipende in maniera consistente dai combustibili fossili, come nel caso dell’Iran. Si è notato inoltre che gli aiuti finanziari dipendono molto dal prezzo del petrolio, che quindi porta alcuni stati a cancellare riforme quando il prezzo sale. Nonostante queste difficoltà, in ogni caso, alcuni paesi hanno fatto passi avanti nella eliminazione dei sussidi. Una strategia efficace è stata quella dell’Egitto, che ha ridotto gradualmente gli aiuti rinvestendo i risparmi in educazione e salute. Altri casi interessanti sono quelli dello Zambia e del Mozambico, in cui una parte dei sussidi ai combustibili fossili è stata utilizzata per finanziare energie rinnovabili e per una maggiore efficienza energetica. In questo modo si è ottenuto un duplice beneficio: diminuire i sussidi e porre le basi per un futuro energetico più sostenibile.
Si vedrà nei prossimi anni se l’accordo di Glasgow sarà in grado di influenzare questi fattori e portare più paesi verso un impegno effettivo nell’eliminazione dei sussidi a carbone, petrolio e gas.