Le foreste hanno un ruolo fondamentale per la vita sul pianeta e offrono molti e importanti servizi ecosistemici. In alcune aree, Europa compresa, la loro estensione è anche aumentata nel corso degli ultimi trent’anni circa. Ma se, nel frattempo, le foreste fossero anche diventate più fragili? È quanto suggerisce un articolo recentemente pubblicato su Nature: analizzando i dati satellitari degli ultimi vent’anni, i ricercatori (in questo caso tutti uomini) evidenziano una diminuzione della resilienza delle foreste a scala globale, e analizzano i fattori che più contribuiscono a questo declino.
Scienza in Rete ne parla con Giovanni Forzieri, ricercatore del Joint Research Centre di Ispra oggi al Dipartimento di Ingegneria Civile e Forestale dell’Università di Firenze e primo autore dello studio.
Misurare la resilienza
All’incirca il 30% del nostro pianeta è coperto da foreste, alcune intatte, cioè prive di interferenze antropiche, altre gestite. Sono circa 41 milioni di chilometri quadrati che non solo hanno un ruolo importante nell’assorbimento di CO2 atmosferica ma che contribuiscono anche alla depurazione e alla regolazione dei flussi d’acqua, alla fertilità e alla stabilità del suolo, alla conservazione della biodiversità che ospitano – senza contare i molti prodotti che forniscono per le nostre attività, dal legname al cibo, come Scienza in rete ha ricordato di recente. In alcune aree del mondo, le foreste sono aumentate nel corso degli ultimi anni: in Europa, per esempio, la superficie forestale è complessivamente aumentata del 10% tra il 1990 e il 2020.
Ma cosa sappiamo dello stato di salute di queste foreste? Cosa succederebbe se si trattasse di foreste fragili? Quello della resilienza è un concetto che oggi ha assunto una grande importanza, che fa riferimento alla capacità dei sistemi di far fronte a una perturbazione esterna e recuperare in seguito il loro stato di equilibrio. «Questo non solo per quanto riguarda eventi gravi, come un incendio o una tempesta di vento, ma anche per eventi di magnitudine inferiore, come le oscillazioni climatiche nel breve periodo», spiega Forzieri. Stimare la resilienza, però, non è un processo banale, perché richiede di tenere in considerazione parametri diversi da quelli facilmente misurabili come la superficie forestale.
«La soglia critica alla quale un sistema – forestale, in questo caso – non riesce più a far fronte a una perturbazione e collassa è indicato con il termine inglese tipping point. Diversi studi hanno evidenziato che, all’avvicinarsi di questa soglia critica, si possono iniziare a individuare delle “firme”, cioè delle caratteristiche della foresta che fanno da indicatori», continua il ricercatore. «In particolare, l’aumento delle oscillazioni del sistema rispetto al suo stato di equilibrio rappresenta un indicatore dell’approssimarsi al tipping point. La metrica che abbiamo usato per valutare queste oscillazioni, e quindi indicative della resilienza forestale, è un parametro detto autocorrelazione, che esprime quanto un sistema, in un dato istante nel tempo, è correlato al suo stato in un momento precedente. Quando il valore è elevato, il sistema richiede molto tempo per tornare al suo stato di equilibrio; di conseguenza, la resilienza è più bassa. Al contrario, sistemi con un’autocorrelazione bassa, se soggetti a una perturbazione esterna, tendono subito a tornare all’equilibrio e mostrano una più efficiente resilienza».
Resilienza e driver del declino
Per stimare l’autocorrelazione delle foreste, gli autori dello studio si sono basati su un indice ottenuto dai dati satellitari, indicativo della capacità fotosintetica delle foreste e della loro biomassa. Per assicurarsi di avere stime robuste e coerenti nel tempo, hanno impiegato i dati forniti dallo strumento MODIS, impiegato da due satelliti della NASA. «Anche se le piattaforme satellitari esistono già da una quarantina d’anni e abbiamo quindi molte osservazioni sulla copertura forestale della Terra, MODIS è l’unico strumento a non essere stato modificato nel tempo, e ci garantisce quindi che i dati prodotti non siano soggetti a bias e incoerenze», spiega infatti Forzieri. «Questa è anche a ragione per la quale le nostre analisi si concentrano solo nel periodo tra il 2000 e il 2020».
Il gruppo di ricerca ha, inoltre, usato un approccio di machine learning e una serie di simulazioni per analizzare i fattori che influenzano le variazioni di resilienza e individuare quelli maggiormente responsabili delle variazioni stesse. Questi fattori sono stati divisi in tre gruppi principali: la climatologia media del pianeta; la variabilità climatica (per esempio le variazioni di temperatura o di precipitazioni) e le condizioni forestali stesse.
Questa complessa indagine ha evidenziato una diminuzione della resilienza delle foreste a livello globale; non per tutti i tipi di foreste, però. Se, infatti, le foreste tropicali, quelle temperate e quelle aride mostrano una diminuita resilienza, per quelle delle regioni boreali appare invece aumentata. Inoltre, le foreste intatte mostrano complessivamente una maggior resilienza rispetto a quelle gestite; tuttavia, la variazione nel tempo di questa resilienza è comparabile. In altre parole: sono foreste per ora meno fragili, ma la perdita di resilienza procede più o meno alla stessa velocità anche qui. Non solo: il 23% delle foreste intatte risulta già prossima a valori critici di resilienza, oltre a mostrare un progressivo deterioramento. «Questi due dati, insieme, rappresentano un segnale di allarme importante», commenta Forzieri. «Indicano infatti che questi sistemi stanno sperimentando un’importante degradazione che potrebbe portare a dei punti di rottura irreversibili, cioè ai tipping points».
Il risultato dello studio è che il declino di resilienza appare collegato soprattutto a un’aumentata variabilità climatica e alla diminuita disponibilità d’acqua. La variabilità climatica non è esclusiva delle regioni tropicali, aride e temperate ma interessa anche le aree boreali. Perché, allora, qui le foreste sembrano essere diventate meno fragili? In queste zone del pianeta si verificano alcuni meccanismi che tendono a compensare gli effetti negativi dovuti alla variabilità climatica, spiega Forzieri. Uno è l’aumento medio di temperatura, che nel breve periodo tende a portare benefici in termini di aumentata crescita forestale; l’altro è l’aumento di CO2, che favorisce i processi di fotosintesi, velocizzando la crescita delle piante, un effetto detto proprio “fertilizzazione di CO2”. Entrambi questi meccanismi si verificano anche sulle altre foreste, ma senza riuscire a compensare gli effetti negativi legati alle variazioni climatiche.
Quanto è positivo questo dato? Quanto ci può rassicurare sullo stato di salute per – almeno – le foreste boreali? Purtroppo, relativamente poco, perché è probabile che l’aumento di resilienza sia transitorio. «Il nostro lavoro si basa sulla situazione attuale, ma le proiezioni climatiche per i prossimi decenni indicano una riduzione della disponibilità idrica anche nelle aree boreali; allo stesso tempo, indicano che gli effetti da fertilizzazione da CO2 tenderanno a saturare», spiega infatti il ricercatore. «La combinazione di questi due fattori potrebbe far sì che gli effetti benefici in termini di aumentata resilienza potrebbero esaurirsi, portando anche in queste zone, nel prossimo futuro, un’inversione di trend».
Infine, i ricercatori hanno anche indagato la produttività delle foreste. Si potrebbe pensare che una foresta in salute sia anche una foresta produttiva – e in effetti spesso è così. Andando a vedere i dati globali raccolti dallo studio, però, si osserva un rapporto antagonistico tra resilienza e produttività forestale: circa la metà delle foreste che negli ultimi vent’anni hanno sperimentato un aumento della capacità produttiva mostrava un trend opposto in resilienza. Già altri lavori hanno osservato che resilienza e produttività non vanno sempre di pari passo, ricordandoci ancora che di fatto le foreste, anche quando crescono (in gran parte per effetto della fertilizzazione da CO2), possono però essere più fragili.
Mitigazione e adattamento per foreste più resilienti
Gli studi condotti finora sulla resilienza delle foreste sono infatti soprattutto a livello locale, per cui forniscono informazioni solo per aree limitate. Quest’ultimo lavoro è il primo a fornire una panoramica globale su come le foreste stanno cambiando, nel tempo, in termini di fragilità e stabilità. E, sebbene lo studio non indaghi le possibili strategie di gestione che potrebbero contrastare la perdita di resilienza osservata, gli autori ne ricordano l’importanza: «Diventa urgente tenere in considerazione questo trend nella progettazione di strategie di mitigazione efficaci basate sulle foreste, per evitare futuri eventi negativi innescati dalla crescente vulnerabilità degli stock di carbonio», scrivono a conclusione dell’articolo.
«In ultima analisi, il declino di resilienza e la conseguente fragilità possono sfociare in foreste che non solo non sono più in grado di assorbire CO2 ma che, anzi, possono contribuire al suo rilascio: è quanto avviene non solo a causa della combustione durante gli incendi ma anche a opera della degradazione delle piante morte», conclude Forzieri. «Questa è anche una delle ragioni che rende davvero importante integrare le strategie di mitigazione del cambiamento climatico con quelle di adattamento, una sfida che al momento le politiche del settore forestale ancora non hanno completamente incorporato. Seguire le strategie di riforestazione senza avere una visione chiara dei nuovi rischi a cui le nuove foreste saranno soggette rischia di risultare in quella chiamata maladaptation, un adattamento non solo inefficace ma che può anche essere dannoso. Foreste non adatte all’ambiente in cui vengono piantate, in zone climaticamente non idonee, o con caratteristiche biofisiche inadatte al clima di domani le espone infatti a rischi più alti, come incendi, tempeste di vento e propagazione da insetti nocivi».
di Anna Romano
Fonte: scienzainrete.it